Che nel cuore del deserto del Sahara algerino esistesse un laboratorio ceramico attrezzato e funzionante e, cosa ancora più singolare, che fosse gestito da una cooperativa di donne ceramiste è una scoperta che ha dell’incredibile. Che poi questa storia si collegasse ad una parte lontana e conclusa del mio passato per me ha anche a che fare con il destino. È stato come se si chiudesse finalmente un cerchio aperto anni fa quando ero sul punto di partire per l’Algeria con una delegazione di studio per visitare gli accampamenti Saharawi. Il viaggio non si concretizzò per motivi di sicurezza (l’Algeria attraversava allora un periodo di forti turbolenze per via di attentati terroristici di stampo integralista) ma l’interesse per questo sfortunato e coraggioso popolo del deserto non è mai cessato.
Il laboratorio ceramico del campo profughi di Tindouf è un esempio straordinario di come la ferrea volontà delle donne e la solidarietà del mondo associazionistico possano realizzare ciò che sembra impossibile realizzare. Protagoniste di questa esperienza unica sono alcune giovani donne Saharawi. Per capire come sia stato possibile far decollare un progetto così difficile bisogna partire da loro, dalle donne Saharawi e dalla loro storia, la storia di tutto il popolo Saharawi, che da quasi 50 anni si misura con un luogo inospitale quale il campo profughi di Tindouf, nell’Hammada algerina, una regione del Sahara tra le più dure ed ostili al mondo. È proprio per la forzata esperienza dell’esilio e per i bisogni generati dallo stato di guerra che le donne Saharawi hanno vissuto un cambiamento rivoluzionario rispetto ai ruoli svolti all’interno di una società nomade tradizionale. Questa evoluzione ha permesso loro di ottenere un grande potere decisionale nel progetto politico per la liberazione e l’indipendenza del Sahara occidentale. Senza alcuna ombra di dubbio esse sono, fuori e dentro i campi, il motore della impressionante resilienza del popolo Saharawi ed un esempio unico al mondo di partecipazione femminile attiva nella creazione delle strutture che hanno risposto alle necessità di una popolazione in esilio.
Quale migliore occasione quindi se non il Matres Festival della ceramica al femminile, ed in particolare il Convegno sulla ceramica come esperienza sociale, organizzato nei giorni del Festival, per parlare delle ceramiste Saharawi e presentare il loro incredibile laboratorio? Con ostinazione e con un lavoro perseverante, grazie all’aiuto prezioso delle associazioni di sostegno al popolo Saharawi “El Ouali” di Bologna e l’Associazione “Tiris” di Napoli e alla rappresentanza in Italia del Fronte Polisario, il braccio politico e rappresentativo del popolo Saharawi, siamo riuscite in un intento difficile ma necessario per poter puntare i riflettori su questo straordinario esperimento. Dai campi profughi, dopo un lungo viaggio, una giovane ceramista Saharawi, Fatimetu Fraikin Cori, è arrivata in Italia per partecipare al Matres Festival! Attraverso la sua preziosa testimonianza Fatimetu ci ha mostrato la forza e la bellezza del suo gruppo di lavoro cooperativo, un gruppo coeso di ceramiste che affronta ogni giorno difficoltà enormi nei campi. Abbiamo avuto così la possibilità di conoscere il loro laboratorio, di toccare e vedere da vicino la loro ceramica, di ascoltare le loro necessità, di capire i loro punti di forza ma anche le loro debolezze. Abbiamo discusso e ci siamo confrontati sul tema della ceramica fatta dalle donne come esperimento di socializzazione e come ponte di solidarietà fra i popoli.
In quanto associazione che valorizza e promuove le capacità e la diversità delle donne in un settore come quello della ceramica fortemente monopolizzato da una scena declinata al maschile, ciò che ha suscitato il nostro interesse è proprio il ruolo centrale che le donne Saharawi hanno avuto e continuano ad avere nell’organizzazione sociale e politica dei campi, ovviamente con un focus specifico su cosa possa significare essere ceramista in un campo profughi e su quali possano essere le possibili sue evoluzioni e prospettive.
In questo contesto difficile si inserisce il progetto della ceramica nel deserto realizzato nei campi dall’Associazione El Ouali di Bologna che, per chi sa di cosa stiamo parlando, propone qualcosa di eccezionale. Fare ceramica di per sé non è semplice! Non lo è per noi ceramisti che, pur avendo a disposizione tutto quanto necessita negli agi e nella comodità dei nostri laboratori efficienti e tecnologici, sappiamo bene quanto la terra, i colori, gli smalti siano imprevedibili ed insidiosi. È quasi proibitivo per chi vive, o meglio sopravvive, in un luogo inospitale come il deserto del Sahara, con pochi mezzi a disposizione se non quelli degli aiuti umanitari. E soprattutto con acqua ed energia razionate, con un clima torrido e secco e con la sabbia che penetra ovunque. Lo sanno bene i volontari italiani che con grande professionalità e passione hanno formato le giovani ceramiste, hanno portato tutto il necessario dall’Italia e continuano ad assistere il laboratorio con visite periodiche ai campi. Non posso non citare e ringraziare Giorgio Baldisserri, un ceramista amico del popolo saharawi che da anni segue questo progetto e che è prezioso non solo per le ceramiste dei campi ma anche per i tanti bambini Saharawi che ogni anno intrattiene e rallegra con i suoi laboratori ceramici didattici. E un grazie ancora va ad un’altra amica volontaria, Valeria Gobbo, che è stata preziosissima per tutto quanto ha riguardato i contatti con il laboratorio nei campi, la comunicazione e l’assistenza di Fatimetu nel suo viaggio in Italia.
L’esperienza delle ceramiste Saharawi rappresenta un esempio eccezionale di caparbietà, resistenza e cooperazione per migliaia di donne nel mondo! Noi ceramiste di Pandora siamo orgogliose e soddisfatte di aver fatto sentire la nostra vicinanza alle colleghe Saharawi e di essere riuscite a far conoscere questa realtà ad un pubblico più vasto ma anche ad un pubblico di settore quale è quello del Matres Festival. Un’opportunità unica per queste donne, una opportunità unica per noi, una prima traccia per segnare una pista che magari in un prossimo futuro potrà portarci a Tindouf, nei campi, ad un grande Festival Matres della Ceramica del deserto. O meglio ancora nel Sahara occidentale libero e indipendente, prima o poi!
Perché la ceramica è solidarietà, la ceramica è resistenza, la ceramica è pace!
FOCUS SUL LABORATORIO CERAMICO
L’idea di realizzare un laboratorio ceramico nei campi profughi di Tindouf nasce nel 2010 grazie all’Associazione di sostegno al popolo Saharawi “El Ouali” di Bologna. L’obiettivo principale è stato formare professionalmente un primo nucleo di artigiane tra le giovani donne dell’accampamento di Dakla che fossero predisposte alla manualità e alla creatività, e generare al tempo stesso una fonte di guadagno, seppur minima, per contribuire al sostentamento delle loro famiglie. Un altro obiettivo del progetto non meno importante è stato quello di realizzare uno spazio comune dove socializzare ed uscire dalla monotonia della vita in tenda. Nel 2013 il progetto si è ampliato con la collaborazione con il laboratorio ceramico di El Aiun nato nel 2005 da un progetto di alcune associazioni spagnole e finanziato dalla città di Puzol (Valencia) ma poi affidato alle cure dell’associazione bolognese El Ouali. Nel 2011 il laboratorio è diventato anche una scuola di ceramica dove ogni anno vengono formate dalle stesse ceramiste nuove ragazze che in futuro lavoreranno nella cooperativa ceramica.
FOCUS SULLA STORIA SAHARAWI
Tra il 1975 e il 1976, all’indomani della Marcia Verde, dopo l’invasione marocchina militare e civile del Sahara Occidentale - l’ex colonia del Sahara Spagnolo - situato tra Marocco, Algeria, Mauritania e oceano Atlantico - una gran parte del popolo che lo abitava, i Saharawi, si è vista costretta all’esilio nella vicina Algeria, nella provincia di Tindouf. Qui appunto, in pieno deserto, sono stati attrezzati i campi profughi che hanno dato accoglienza ad alcune centinaia di migliaia di sfollati e che, da un punto di vista socio-antropologico, sono un unicum per le caratteristiche con cui sono stati pensati e strutturati. A dispetto delle obiezioni che nei consessi internazionali all’inizio venivano rivolte ai Saharawi, e cioè di essere una popolazione nomade incolta e poco organizzata, non rappresentativa di un corpo etnico autonomo ed indipendente, l’aver proclamato uno Stato in esilio, la RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica) è stata la mossa vincente. I Saharawi sono stati capaci di organizzare con pochi mezzi e in un territorio inospitale come i campi profughi di Tindouf un sistema sanitario, un sistema educativo, un sistema giuridico indipendente dallo Stato che li ospita, una radio, una televisione, una biblioteca e un archivio storico della memoria, rapporti di amicizia e cooperazione tramite rappresentanze politiche efficienti ed attive in numerosi paesi. Insomma tutto quanto uno Stato debba avere ma in un regime di gravi restrizioni.
È la crisi umanitaria più longeva e complessa dello scenario geopolitico internazionale quella dei Saharawi, che coinvolge numerosi attori internazionali con precisi interessi economici e strategici. Ma è anche il conflitto meno noto, quello che è stato meno raccontato dai media. Non sorprende quindi che la maggior parte della gente non sappia affatto chi siano i Saharawi e dove si stia consumando la loro tragedia! La questione, ancora lontana dall’essere risolta, di recente è balzata agli onori della cronaca internazionale grazie agli scandali europei del Qatargate e del Moroccogate. Queste vicende hanno investito come uno tsunami il cuore delle istituzioni europee, svelando intrighi di palazzo e smascherando pseudo-filantropi difensori dei diritti umani. Hanno mostrato a tutti la debolezza dell’Europa di fronte al potere del denaro e la sua ipocrisia nei confronti dei più deboli. Finalmente si è fatta luce sulle durissime condizioni di vita a cui i Saharawi sono sottoposti nei territori occupati e dentro i campi profughi e si è data voce a quanti da anni denunciano l’ingiusta espoliazione delle immense risorse naturali del Sahara occidentale per mano degli invasori marocchini e dei suoi diretti partners, tra cui molte imprese di paesi europei, Italia compresa. Quello che doveva essere un esilio temporaneo in attesa del referendum di autodeterminazione, sancito inequivocabilmente dalle Nazioni Unite come diritto indiscusso delle popolazioni autoctone del Sahara Occidentale, si è trasformato in un soggiorno forzato durissimo che ha profondamente segnato la popolazione Saharawi, in special modo le giovani generazioni.