La parola sìmbolo, dal latino symbŏlus e symbŏlum e dal greco σύμβολον, significa «accostamento», «segno di riconoscimento». Nell’antica lingua dei Greci, la parola simbolo deriva dal verbo συμβάλλω «mettere insieme, far coincidere» che è composto da σύν «insieme» e βάλλω «gettare». Era in uso, tra quelle antiche genti, utilizzare un “simbolo”, un mezzo di riconoscimento, di controllo costituito da ognuna delle due parti ottenute spezzando irregolarmente in due un oggetto (per es. un pezzo di legno); i simboli ottenuti venivano conservati dai discendenti di famiglie diverse che li custodivano, nel tempo, come segno di reciproca amicizia. Oggi la parola simbolo rappresenta qualsiasi elemento (segno, gesto, oggetto, animale, persona) atto a suscitare nella mente un’idea diversa da quella del suo immediato aspetto sensibile. E’ capace di evocare attraverso qualcuno degli aspetti che caratterizzano l’elemento stesso e viene pertanto utilizzato per alludere, in particolare, ad entità astratte, di difficile espressione.
Il “Progetto Ceramica Donna” si materializza, si riconosce, in sostanza “si evoca” attraverso il simbolo che ha adottato: la mater, espressione universale della donna, immagine in cui si incarnano gli aspetti essenziali della vita umana come fertilità e procreazione. La mater è il simbolo della divinità femminile primordiale, rappresenta la terra stessa e la sua infinita capacità di produrre sostentamento per gli uomini. E terra è anche l’argilla che le artiste del progetto lavorano, plasmano, trasformano in opere d’arte.
Nel simbolo del “Festival Internazionale della Ceramica”, l’immagine stereotipata della mater si evolve, assume una propria identità, diventa la figura femminile seduta in trono, come le statue Matres Matutae, oggi conservate nelle sale del Museo Campano di Capua: esse sono espressione del culto per la madre divina o divinizzata, culto fortemente radicato nell’ambito delle popolazioni italiche preromane.
Nel territorio dell’antica Capua, uno scavo fortuito condotto nel 1845 intorno ad un podio di tufo in un fondo di proprietà della famiglia Patturelli-Pellegrini, rinvenne, tra le altre cose, un complesso di oltre cento sculture in tufo rappresentanti madri con bambini e qualche soggetto minore come offerenti, partorienti e figure stanti o sedute, le Matres Matutae. L’iconografia di queste madri era talmente lontana dai canoni della bellezza classica che i primi studiosi le definirono “…rozze e mostruose sì che sembrano rospi”. Scolpite nel tufo grigio del monte Tifata, erano probabilmente collocate lungo le pareti di un santuario pertinente ad un’estesa area di necropoli scavata successivamente, nel 1995. Le sculture propongono costantemente lo stesso soggetto: una donna, abbigliata secondo la moda greca con chitone e mantello e ornata da bracciali e orecchini di foggia ellenistica, occupa una sedia, spesso configurata come trono, con gambe e braccioli lavorati e alta spalliera, e regge in grembo uno o più bambini (fino a 12), spesso avvolti nelle fasce. La donna, talvolta, stringe il bambino al seno nudo nell’atto di dargli il latte. Le sculture conservano, spesso, traccia dell’originaria stuccatura che le doveva completare in antico, su cui con tutta probabilità dovevano essere dipinti ulteriori elementi ornamentali e particolari dell’acconciatura e dell’abbigliamento. Cronologicamente, le statue rinvenute non sono coeve, ma sono databili lungo un arco temporale che si snoda tra la fine del V e la fine del II sec. a.C.
Alla fine dell’Ottocento, il filologo e grecista tedesco Wilamowitz scriveva di loro: “le donne di Capua consacravano alla dea, sia come dono di supplica, sia come dono di ringraziamento, le loro immagini aventi nelle braccia i bambini che desideravano fossero presi sotto la protezione della dea, consacravano talvolta anche l’immagine della dea, e così andava formandosi intorno al santuario un vasto bosco di statue…”
Le statue sono state riconosciute, fin dalla loro scoperta, come la rappresentazione di una donna offerente che dona alla dea la propria immagine accompagnata dai figli già partoriti per propiziarsi il favore divino ed ottenere la propria salute e quella della prole; la dea venerata nell’area sacra è identificata, seppur con tante incertezze, con la divinità indigena Matuta. L’arcana bellezza che traspare dalle superfici ruvide ed irregolari di queste statue simboleggia la vita stessa, il ciclo eterno dell’esistenza che si dipana tra la vita e la morte. Le matres rappresentano, con gli infanti tra le braccia, la vita che si rinnova in contrapposizione con la fissità dello sguardo e del corpo statico che richiama la morte. La donna raffigurata diventa l’anello di congiunzione tra l’umano e il divino: è colei che divinamente regala la vita ma è anche colei che ineluttabilmente, alla fine del ciclo vitale, non può donare a sé stessa un’altra opportunità. E le Matres Matutae, assunte a simbolo del Festival, raccontano proprio gli intenti di chi ha pensato e realizzato il progetto: donne che lavorano con e per altre donne impegnate in attività artistico-artigianali nel campo della ceramica. Matres sono le artiste, di respiro internazionale, che attraverso l’argilla rinnovano continuamente il dono della vita donando l’afflato eterno alle loro opere. Matres è l’argilla che si fa plasmare, modellare, foggiare fino ad esaudire il desiderio di elevarsi verso l’alto, verso il divino che appartiene a tutta l’umanità e ad ogni tempo.
Museo Provinciale Campano di Capua - Collezione delle "Matres Matutae", dette anche Madri di Capua
La collezione conta oltre centotrenta statue, datate presumibilmente tra il IV e il I secolo a.C.
Rielaborazione grafica di Bruna Pallante e Alessandro De Sio (www.motive.ink) del logo del Matres Festival